Ma chi è?

Lo ammetto, sono una di quelle.
Una di quelle che quando è giorno di mercato o quando semplicemente va a fare un giro nell’orto, esce con un paniere sottobraccio e, nelle giornate di sintomatologia più acuta, una reflex appesa al collo, torna dopo qualche ora a casa febbricitante e si mette a fotografare sedanibroccoliravanelli davanti alla finestra su tavole di legno grezze e vecchie e panni sbrindellati.

cesto_verdure_mercato


 

cesto_verdure_fresche_orto_sicilia

 

cesto_ravanelli_rabarbaro

 

pomodori_orto_sicilia

Una di quelle che non vede l’ora di essere invitata a cena dagli amici per portare un semplice dolce fattodame non aspettando per tutta la serata che di parlare della ricetta che selavuoitelado, tranquilla, sifainunattimo…

 

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Tarte au fromage blanc meringuée aux fraises et graines de pavot

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Tarte au fromage blanc meringuée aux fraises et graines de pavot, tranche

Una di quelle che ha smesso di chiamare il cibo con il suo nome (italiano) e ha cominciato a chiamarlo food, con l’unico risultato che ora mia nonna non mi capisce più.

Sono una di quelle capace di trattare un gambo di rabarbaro come un divinità norrena.

 

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Sono una di quelle che Io solo sale himalayano, o al massimo, fleur de sel. De Guerande?!? Non ce l’hai de Camargue???
Sono una di quelle lettrici accanite divoratrici di etichette.
Sono una di quelle che al supermercato Dimmi che carrello hai e ti dirò chi sei.
Sono una di quelle che Cooosa?? Compri la maionese??! E allora loro Ok, dammi la ricetta, e allora tu Certo, quella francese, italiana o giapponese??!?
Ma ho anche dei difetti:
Ho dimenticato il sapore della vellutata di potimarron, ho sempre le papille decimate già alla prima cucchiaiata perché non resisto all’attesa che si freddi.
Mi affeziono alle liste della spesa e non riesco buttarle. Così come agli strofinacci da cucina. Perchè parlano un po’ di me, cavolo.
Ho un piccolo tatuaggio semipermanente sul polso nonostante i guantoni con le renna, regalo di natale, contro le cui corna impreco inutilmente e sonoramente ogni volta.
Di cosa ho paura:
degli aghi e dei coccodrilli.
Due miei motti per conoscermi meglio:
“U mari è chinu di pisci ma non tutti su pisci ppì ffari broru.” (Traduzione: Vivere è come fare un buon brodo di pesce: delle infinità possibilità che il mare della vita può darti, scegli quelle capaci di fartene gustare l’essenza.)
Non voglio farvi riflettere troppo sennò cambiate sito, ma i pesci più brutti danno il brodo migliore….
“I maccarruna inghinu ‘a panza.” (Traduzione:Il cibo vero e le cose reali saziano veramente mente e corpo.) Un richiamo alla concretezza di un mio saggio amico quando esagero con le farneticazioni metafisiche.
A tal proposito, per rispetto dei lettori, è giunto il momento di raggranellare un po’ di contegno e di dire qualcosa di serio su di me, sempre che sia possibile. Anche se le farneticazioni metafisiche e le matite colorate e la macchina fotografica e le pentole sono le cose che più mi piacciono, sono anche un biologo molecolare e mi occupo di nutrizione. Mi ci è voluto un po’ di tempo per capire che il laboratorio che più amo in assoluto è la cucina, che i miei esperimenti scientifici più appaganti sono quelli gastronomici e che le mie cavie da laboratorio preferite sono le persone che amo (anche perché loro non c’è bisogno di vivisezionarle). Passo le mie giornate a scrivere, a cucinare esperimenti spesso deliranti…

Sicily scented banana bread, al miele, fichi secchi, mandorle e olio d'oliva

Sicily scented banana bread, al miele, fichi secchi, mandorle e olio d’oliva
 

… a importunare di domande e foto mercanti rionali e fattori e mugnai simpatici che mi capitano a caso (ma non troppo) sotto tiro, a organizzare corsi di cucina per adulti e bambini…

 

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NaturalBornCooks, atelier di cucina naturale per bambini, Luxembourg ville.

… a rinfrescare pasta madre e a sfornare pagnotte di tanto in tanto.

 

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Ora che mi sono presentata posso fare un po’ di autoanalisi? Cioè posso dirvi come mai mi sono permessa di aggiungere ancora un altro foodblog allo sterminato numero di foodblogs già esistenti sul web? Ce n’era proprio bisogno?
Diciamocelo onestamente, noi malati di cibo, o foodobsessed chefapiùfico, cerchiamo e forniamo nella e alla comunità dei foodbloggers una sola, semplice cosa: il conforto e il sostegno che solo un gruppo di auto-aiuto può darti. La nostra è una psicanalisi di gruppo gigantesca. Siamo la foodisti anonimi. Con la differenza che nessuno di noi vuole uscire dal tunnel anzi, ci abbiamo fatto l’orto e messo pure un frigo con dentro la pasta madre! Liquida! Ci sentiamo a casa nostra. Come mai? Secondo me perché siamo dei pervertiti foodpornomani Mi permetto di abbozzare una mia personalissima e autocritica risposta a questo domanda:
Con la caduta del muro di Berlino e l’apertura delle frontiere Un giorno abbiamo visto una pannocchia di mais nuda, senza etichetta né lattina addosso e ce ne siamo perdutamente e visceralmente innamorati. Da quel giorno l’immagine più hard del nostro immaginario è un mazzo di carote tutte sporche di terra e col ciuffo scompigliato, capace di farci travolgere da un ardente e irrefrenabile desiderio di (red) light box.
Ma il merito non è della carota. Né il nostro, figuriamoci. Il merito è del fatto che la carota è sporca. Di terra, da dove proviene. Toh, ce ne eravamo scordati.
Diamine, cosa porta un essere umano a mettere un uovo in camicia sotto a un riflettore, ve lo siete mai chiesto?! Perché diavolo tutti giù a fotografare torte appena sfornate e ravanelli e polpette e frullati multicolors (che ora si chiamano smoothies), no veramente, perché? Cosa accade a livello sociologico? Una nuova forma di voyeurismo? Vuoto esistenziale? Troppi pasti consumati in solitudine? Una semplice moda passeggera? Specchio della decadenza? Il tempo di Andy Warhol è passato e fotografare il cibo in scatola ormai è out? L’umanità vuole autofagocitarsi e riprendersi mentre lo fa?!? A me da piccola hanno spiegato che col cibo non si gioca; che sia l’infrangere questo divieto a dare alla food fotography, oh yeah, quell’aura di fascino che noi tutti subiamo? Che sia il fatto che ne abbiamo talmente tanto di cibo (noi, questa parte del mondo, the western one intendo) che possiamo anche farlo raffreddare o rovinarlo sotto i flash, o addirittura renderlo immangiabile pur di renderlo più fotogenico? (Anche quella mattina il ravanello arrivò in studio e si truccò: lacca, colla vinilica, glicerina, push-up di cotone…)
E poi, come mai il cibo è diventato una star, protagonista incontrastato della stampa glamour patinata? Il cibo non dovrebbe essere il ragazzo della porta accanto, il fratello che siede ogni giorno a tavola con noi? Perché abbiamo divinizzato la più concreta e comune delle cose? Che il cibo non sia il fine, ma il mezzo attraverso cui noi, figli delle scatolette, cerchiamo di arrivare a qualcosa di perduto (o mai avuto)?

L’uomo crede di essersi posto a capo della catena alimentare, in realtà ha semplicemente abbandonato il campo dove leoni e coccodrilli e squali martello lo sfidavano a duello troppo spesso, si è rifugiato in luoghi asettici e artificiali dove poter posare il sedere e addormentarsi annoiato davanti alle tigri e ai caimani del National Geographic. Come un despota grasso e distratto non si cura dei suoi presunti sudditi e ignora che prima o poi fra di loro esploderà la rivolta. Un anello della catena ha sempre qualcuno a cui dare la mano, il capo no. Ecco spiegata la solitudine dell’uomo moderno.
Ma figuriamoci se con queste mie parole vorrei che la smettessimo co’ sta storia di fotografare il cibo. Fossi matta. Viviamo nella Age of food e questo è quanto. Sono pagine di storia dell’umanità (ricca) che stiamo scrivendo.
Donc, da questa mia piccola e dimessa finestra sul mondo mi permetto di lanciare un pacifico, sereno appello senza alcuna pretesa:
Che il cibo non sia più un evento, né una moda, né una modella da truccare. Che il cibo non sia una star sul viale del tramonto tornata alla ribalta per aver vinto la sua battaglia contro il cancro.
Che il cibo torni ad essere ciò che era prima di ammalarsi, sano, ingenuo e senza alcuna velleità artistica. Tutto sporco di terra.
E se un giorno ci ritroveremo a chiedere l’autografo a un carciofo (che non fa il calciatore) poi non dite che non vi avevo avvertiti.

Nicoletta di NBC

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