… OVVERO
CIPOLLATA ROSSA DI CIPOLLE BIANCHE
La prima donna in cucina dei miei ricordi è mia nonna Filippa. Per me lei non è mai stata una cuoca ma una maga potentissima capace di solidificare il latte, liquefare lo zucchero e fare un’opera d’arte con quattro peperoni e due cipolle, roba che manco l’Arcimboldo. La sua cucina ampia e aperta era il più libero e accessibile degli antri magici di cui io avessi conoscenza. Le sue bacchette magiche erano in bella vista nel barattolo dei mestoli e le ricette delle sue pozioni si trovavano in quaderni a cui tutta la famiglia aveva libero accesso. Il grande tavolo, sempre imbandito a qualsiasi ora di pranzi, cene, merende, spuntini o di semplici cesti di frutta secca o agrumi in inverno e di fichi e mandorle appena raccolti in estate, era una naturale continuazione del piano cottura, fra la padella e il tavolo c’era la distanza di una giravolta e di un passo, mia nonna era sempre a tavola con noi pur continuando a cucinare ininterrottamente, dava un boccone e con la forchetta girava la frittata, con naturalezza.
Tutti i piatti di mia nonna mi sono rimasti nella memoria perché avevano qualcosa di unico soprattutto nell’aspetto.
Se per gioco saltassimo indietro nel tempo di vent’anni e chiedessimo a mia nonna e a tutte le sue vicine di casa di preparare tre classici siciliani (di quelli che le massaie siciliane di un tempo ti preparano anche bendate e saltellando su un piede) come la cipollata in agrodolce, la peperonata e il biancomangiare, (da noi in famiglia da sempre chiamato semplicemente crema, vedi magia di cui sopra), assisteremmo a un fatto a dir poco singolare: le cipollate, le peperonate e i biancomangiare imbanditi su una tavola e disposti per tipologia, avrebbero un intruso per ogni categoria che sarebbe invisibile agli occhi di tutti, ma non al mio. Io riconoscerei la peperonata, la cipollata e la crema di mia nonna fra dieci, venti, cento altre peperonate, cipollate e biancomangiare. Senza assaggiarle. Lei aveva dei segreti strabilianti in cucina e noi che la conoscevamo bene non riuscivamo proprio a capire perché non ce li rivelasse. Era un mistero.
Nessuno riusciva a spiegarsi come facesse. La cipollata di mia nonna aveva un colore inspiegabile e inimitabile, di oro rosso. Non c’era traccia di pomodoro nella sua ricetta e le cipolle erano quelle enormi e bianche, quelle che con una intera al forno e un pezzo di pane ci pranzi… (Magie dei panifici siciliani). L’oro di cui si ammantava la cipollata di mia nonna non era come l’oro delle altre cipollate. Baby, tu non sei come tutte le altre … le sussurravi all’orecchio.
Nonostante i minuziosi appunti presi durante le innumerevoli open session di cipuddata di mia nonna, nessuno riusciva a carpire il segreto di quel rubicondo, appetitoso enrobage. Ma la cosa ancora più affascinante era che nemmeno mia nonna aveva la più pallida idea di quale esso fosse.
Mia nonna semplicemente prendeva delle enormi cipolle bianche (le divine cipolle di Giarratana), tanto grandi che ne bastavano tre per fare un enorme padellata di cipollata, le sbucciava e le affettava sottilmente ma non troppo. Metteva a scaldare abbondante olio d’oliva nella padella e ve le adagiava sopra, facendole sfrigolare. Mescolava e lasciava che si rosolassero bene a fuoco vivace. Solo a quel punto aggiungeva il sale, abbassava la fiamma, poi mescolava di tanto in tanto. Tenete a mente questo mescolava di tanto in tanto, è importante. A fine cottura mia nonna aggiungeva un cucchiaio di zucchero e tre di aceto e faceva sfumare.
No, mai una sola volta durante le sue cipuddata open session mia nonna pronunciò la parola caramellizzazione, o citò la reazione di Maillard o Brillat Savarin nella quinta meditazione della sua Fisiologia del gusto … mai. Siete fuoristrada. Il segreto rimase segreto per anni.
Poi finalmente un giorno accadde qualcosa. Una delle mie zie osò. E fu una di quelle volte in cui l’audacia spalanca mondi misteriosi.
“Mamà, – disse a mia nonna – chi fazzu ‘arriminu ia sta cipudda? Sennò sìappigghia!”
(Traduzione: “Mamma, che faccio, la mescolo io questa cipollata? Sennò si attacca!”)
Fino ad allora, proprio per l’aura arcana che la ammantava, mai nessuno aveva neanche lontanamente immaginato di metter mano alla cipollata di mia nonna in preparazione. Ma quella volta mia nonna era occupata in qualcos’altro e la padella incustodita sul fornello aveva suscitato, giustamente, l’apprensione di mia zia.
“Sisì fallu tu, ca stu minutu aju ‘cchi ffari” – rispose mia nonna.
(Traduzione: “Si si, fallo tu, che io in questo momento ho da fare …”
Mia zia si girò verso la cucina per afferrare il cucchiaio e mescolare e vide che sul piano cottura c’erano accesi due fuochi: su uno bolliva, come ogni giorno, l’immancabile tegame di sugo di pomodoro per il pranzo e, sull’altro, la padella con la cipollata per la cena. C’erano dunque due pietanze in preparazione ma sul ripiano un solo cucchiaio di legno per mescolare, sporco di sugo. Mia zia lo guardò e si mosse istintivamente per prenderne uno pulito, poi si fermò di colpo e si disse che mia nonna non lo avrebbe mai fatto.
E tutto le fu finalmente chiaro.
Un cucchiaio di legno sporco di sugo può fare di un piatto comune un piatto speciale. Brillat Savarin, hai mai meditato su questo?
Grazie a te… 🙂
Anche se non ho conoscenza dei taccuini storici di Savarin, mi sento di affermare che sicuramente da essi non trapelavano uguali profumi familiari come quelli che hai fatto riaffiorare tu nella mia memoria. E’ stato bellissimo. Grazie